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24 ottobre 2015

Un clandestino al Sinodo V: una soluzione esistenziale


1  Uno scorcio sulla castità

Tuttavia lo statuto di peccatori morti di peccato mortale - benché anche quella occasione vivace nella santità propria ed altrui, se vissuto nell'ottica della croce – non è una condizione ideale della vita cristiana. Ad un certo punto bisogna assolutamente raggiungere quel Cristo Eucaristia colla corporeità delle proprie labbra.  
Ecco la proposta che mi soddisfa di più: la castità. Bisogna ricordarsi che essa compete a qualsiasi cristiano: la castità è una virtù affettiva, che concerne, cioè, l'agire degli affetti che tendono così alla sublimazione. Come tale non è patrimonio esclusivo dei religiosi, né è rinchiusa dentro una qualche polverosa cassapanca di un opaco monastero alla Umberto Eco. Tutt'altro, essa è un dono di Cristo, patrimonio di Cristo, di cui, come tale, sono eredi tutti coloro che sono coeredi di Cristo, cioè i figli di Dio.

Tutti sono chiamati alla castità, la quale, prima di essere uno stato di vita, è una modalità di azione: perfeziona l'amare, lo addensa, portandolo al suo massimo significato. Essa, dunque, è un proprio dell'amare: in un uomo in ricerca della propria vocazione si presenta come conservazione del proprio corpo e del proprio spirito – la castità concerne più il cuore dell'anima che il cuore di carne. È una vita tutt'altro che repressiva, in cui l'addensamento della castità è il progressivo confezionamento di un dono: il dono di sé.
 
Come tale non è fine a se stessa, essa scaturisce in due altri tipi: la castità matrimoniale e quella perfetta. Nella prima l'addensamento non è più ad intra, ma ad extra e coinvolge due persone che finiscono per essere una caro (una sola carne). Non è, come credono ciecamente alcuni, cessazione dei rapporti sessuali; al contrario è la loro concentrazione verso una ed una sola persona, per sé irripetibile e dalla sconfinata ricchezza. È, perciò, la sacra medicina ad ogni dispersione di sé, alla dispersione della propria identità connessa alla dispersione del proprio corpo.
La castità perfetta, d'altro canto, è propria della vita religiosa ed è frutto di un trasporto affettivo, più che di una castrazione: solo che questo rapporto affettivo è una rivoluzione cosmica, come insegnano le costituzioni del nostro ordine di frati predicatori: “per essa (…) ci consacriamo interamente alla Chiesa per un amore più completo all’umanità (…), contribuendo all’opera di eterna rigenerazione”. (LCO III, 26 §I) (1) Essere casti ha senso solo e solamente in-con e per Cristo. La castità perfetta è realizzare quell'unità che v'è tra uomo e donna direttamente con Dio e quindi è la massima spiritualizzazione della materia - laddove Dio, che è massimamente spirito, diviene ‘una sola carne’ (2) con me; e la massima materializzazione dello spirito – laddove io uomo, cioè humus vivente e razionale, divengo un solo spirito con Dio (3).
 
2 La via della castità: posizioni e critiche

A quale castità siano chiamati i divorziati risposati bisogna bene comprenderlo. Non è la prima, perché non v'è più la mera necessità di confezionarsi come dono in attesa di qualcuno cui donarsi. Questi, infatti, proprio per il principio della fedeltà obbiettiva del sacramento, vi è già. Se si ripartisse dalla prima forma di castità vi sarebbe una regressione nel proprio percorso di santificazione; ma per il cristiano tutto è stimolo e progressione verso Cristo, perché tutto - anche la cosa a noi più avversa - nell'ottica della croce è santificante. L'unica regressione nel percorso esistenziale di una persona è, di fatto, solo il peccato. Il che ci rivela come non sia logico il passaggio da una castità specificata ad una indifferenziata. Questo però è quello che vivono le persone che, divorziando, passano di nozze in nozze, e quindi continuamente riconfezionano pacchetti, ahimè si deve dire vuoti, di sé per un'altra persona.
L'ottica pastorale - che punta ad ottimizzare l'abbondanza del peccato come occasione di sovrabbondanza della Grazia – deve anzitutto condurre il gregge verso una maggiore santità, schivando come brumosa peste sia la retrocessione come la cessazione del dinamismo. Solo i morti non si muovono più.
Il problema è tuttavia dato dal fatto che la castità del divorziato sia crocifissa, nel senso che egli non ha più possibilità di legare ed addensare il suo amore ad una ed una sola persona: la fedeltà soggettiva di uno dei due coniugi o di entrambi è guasta e questo funge da fattore distraente della reciproca attrazione sponsale che esercita la castità. Siamo, quindi, nella condizione non ideale dell'affettività di una persona, che tuttavia Dio permette per una maggiore idealità. Ma quale? Questo è il compito di una sana teologia spirituale e pastorale: riscoprire la condizione di migliore idealità.
Da un lato vi è la possibilità che gli sposi tornino insieme – e allora vi è una conservazione della propria castità sponsale in vista di un ritorno all'unità, dove l'amore sarà stato catartizzato e purificato dalla dura divisione. Dall'altro lato questa opzione risulta essere sempre più remota di fronte al fatto che la proliferazione delle famiglie rende queste difficilmente conciliabili tra loro.
Esiste una proposta, ahimè, dura da comprendersi per molti, eppure la più luminosa. Quello che non si comprende facilmente di questi tempi è il dono della castità perfetta. Una posizione ecclesialmente insostenibile che vuole tutte le vocazioni sullo stesso piano e non legge il Catechismo della Chiesa Cattolica sull'argomento, crede davvero che siano uguali innanzi a Dio la vocazione matrimoniale e quella religiosa, sicché non vi sia differenza d'importanza tra la castità sponsale e quella perfetta. Questo, non solo è in contraddizione col Concilio e tutta la tradizione precedente,  ma è anche il principale impedimento alla pastorale che, in alcune meste proposte, non cerca il bene reale della persona, ma il suo compiacimento. Ma al buon pastore non interessa compiacere, quanto rendere felici.
Anche quella per me fine mente del mio confratello, ai cui testi invito la vostra lettura, è caduta in questo vizio intellettuale. Fra Luca definisce la castità tassa esosa. Egli dà anche convincenti ragioni che qui riporto, ma dalle quale debbo in parte dissentire: "Ponendola (la castità) come unico criterio dirimente, si rischia di trasformarla in una esosa tassa per l'accesso al sacramento e di privarla del suo significato profondo e spirituale. È eccessiva, perché richiede una piena consapevolezza del bene (molto arduo e spesso esclusivamente spirituale) che si potrebbe riguadagnare attraverso di essa. Una tale consapevolezza richiede una maturità e una solidità interiore che non è  immediatamente alla portata di tutti, ma è frutto di un cammino accidentato sostenuto dalla Grazia." [Fra Luca Refatti op, La Comunione ai risposati, tratto da http://vitaefratrum.blogspot.it/2015/01/la-comunione-ai-risposati.html#more].
Esprimo il mio assenso sui seguenti punti; primo: ritengo che la castità necessiti di una piena consapevolezza del bene - che richiede profonda una maturità ed una solidità spirituali - frutto di un cammino accidentato sostenuto dalla Grazia, Secondo: tutto ciò non è immediatamente alla portata di tutti, né deve esserlo. Su queste considerazioni venienti, invece, esprimo il mio dissenso; primo, che si rischi di trasformarla in una esosa tassa per l'accesso al sacramento. Secondo, che tale bene sia spesso esclusivamente spirituale, terzo, non scritto ma intuibile, che la maturità verso la castità non possa nascere da uno stato spirituale che è di frattura affettiva, la dove un elemento fondante della vita di una persona, il coniuge, si sottrae all'edificazione della persona stessa.
Di conseguenza mi permetto di rispondere coi seguenti argomenti. Anzitutto la castità è tutt'altro che una esosa tassa e il rischio di trasformarla in tale nasce dalla considerazione stessa del rischio, nel senso che il male entra nella vita umana nella misura in cui è ammesso da essa. Faccio un esempio: ad un noto legislatore dell'antica Grecia, Dracone, uomo severo e canuto, dallo sguardo profondo, fu chiesto di scrivere il codice penale d'Atene dai cittadini della medesima.
 
Così egli fece con sapienza, perizia ed un'impareggiabile intransigenza: i più dei reati veniva punito con la pena di morte. Conciò sanzionò l'omicidio, ma non il parricidio. Così, alla fine dei suoi giorni accadde il caso d'un figlio che spegnesse nel sangue la vita paterna. Condannarono il giovane con la pena di un comune assassino, ma consci della maggior gravità del gesto chiesero a Dracone il perché non avesse parlato del parricidio. Il saggio, crucciandosi, rispose che pure vi aveva riflettuto, ma che non era mai accaduto. Condannarlo, così, sarebbe stato più nefasto che non condannarlo: la proibizione avrebbe istruito l'uomo del male che cercava di evitare. Chi ignora il male, infatti neppure lo compie. Se noi ammettiamo la visione di una castità tassa, abbiamo già insinuato la visione che volevamo togliere. Il nostro obbiettivo non è pensare a come la castità perfetta potrebbe essere fraintesa, ma insegnare come essa è: questo toglie ogni fraintendimento.
L'uomo che vive tale condizione, vive obbiettivamente un dono maggiore del matrimonio. La croce è per lui elezione, perché lo rende più simile a Cristo che, senza moglie particolare, ha sposato l'umanità intera. Se noi ci spogliamo di questa indefferenziazione esistenziale, per cui ogni vocazione è uguale, possiamo parlare di un croce elettiva. Ma se tutto è omogeneo, che vantaggio dall'abbracciare i consigli evangelici? Nessuno. La castità non è uno stato di schiavitù, non è una catena, è la condizione degli uomini liberi: vi saranno forse sposati tra le schiere celesti? (Cfr Lc 20, 27-40). Chi è casto prefigura il regno in se stesso. Ed ecco allora ammonisce San Paolo: "Vorrei però che tutti gli uomini fossero come me; ma ognuno ha da Dio il suo dono particolare, chi in un modo chi in un altro" (1 Cor 7,7). Dice che vorrebbe tutti come sé, perché reputa sé modello di Cristo, per divenire come Cristo, per cui spesso esorta ad essere imitato dai fedeli e dice: "Così chi marita la sua vergine farà bene, ma chi non la marita farà meglio" (Ibidem v.38).  "Se hai preso moglie, non hai peccato. E se una ragazza si è sposata, non ha peccato; però costoro esperimenteranno tribolazioni nella vita; ed io vorrei risparmiarvele" (Ibidem, v.28) perché "chi non ha moglie si dà pensiero delle cose del Signore in qual modo possa piacergli; chi, invece, è ammogliato, si dà pensiero delle cose del mondo in che modo possa piacere alla moglie, sicché rimane diviso" (Ibidem, v.32-33).
Se tutto questo dice delle nozze lecite, quanto più varrà per il divorzio! Così, chi dalle circostanze è chiamato alla castità, consideri di essere passato dal bene al meglio, perché è quanto gli dice la Parola di Dio. Questo meglio, poi, non è affatto solamente spirituale, perché non v'è parzialità nei doni dell'Altissimo, né Egli è avaro del Suo Amore: chi ha la castità perfetta, l'ha nel proprio corpo per essere una sola carne con Cristo. Anzi, essendo ogni bene di Dio, anche la mia castità di religioso è di Dio, cosicché di Cristo posso vantarmi che sia casto nel mio corpo. Ciò è quanto rispondo al secondo punto. Al terzo punto, che è implicito, mi permetterei di ribattere, appellandomi a San Paolo, cui disse l'Altissimo: "Ti basti la mia Grazia, perché la potenza trionfa nella debolezza" (2 Cor 12,9) ed è per questo che egli afferma: "Quando sono debole è allora che sono forte" (Ibidem, 10). La fragilità di una certa condizione umana, infatti, non risulta affatto una condizione a sfavore riguardo la necessità della castità,  piuttosto dovremmo dirlo a favore, se è vero che il Signore predilige la debolezza per manifestare la propria di Potenza e glorificare maggiormente il Suo Nome. Così, quanto meno ideale è la condizione permessa, tanto maggiore sarà l'idealità raggiunta. Si guardi all'estrema difficoltà: la morte è stata occasione della massima idealità, ossia la Vita Eterna dei Risorti. Ora, tutto ciò che vale per gli estremi, necessariamente vale per quanto in essi è compreso.
 
3 Non dico nulla di nuovo?
 
Alcuni potrebbero obbiettare, quindi, che di fatto io non stia proponendo nulla di nuovo, ma che tale idea di castità continuerebbe una posizione già assunta dalla Chiesa sin dalle vigorose parole di Tertulliano, ma rivelatasi fallimentare nell'esperienza. Ebbene, in effetti la mia, per così dire, ultima notizia è fresca fresca di duemila anni: incarnazione, passione, morte e resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Se fossi in un qualsiasi e meno ‘clandestino’ buon cristiano diffiderei di notizie più fresche...
Così, mi permetto di dire che anzitutto il fallimento empirico rinvenuto non consiste nella castità, ma in chi non ha voluto seguirla o realmente proporla. Dire il contrario sarebbe come assistere ad un obeso che incolpa la porta d'essere stretta.
 
Ecco che, poi, credo sia buona cosa ricercare il nuovo, ma v'è una novità stolta o falsa novità e una novità sapiente o vera novità. Chi cerca il nuovo come 'il-mai-stato' è miope: non sa forse che nulla di nuovo v'è sotto il sole? (Qo 1,9) Chi ha Cristo, infatti, ha tutto e chi ha tutto non ha bisogno di nulla di nuovo di quanto ha (ha tutto!). Così una cosa sola è necessaria: una nuova ricomprensione del tutto. Questo io cerco di proporre: una nuova ricomprensione ed una nuova scoperta della castità, in un mondo che di Abramo ha rigettato la fede ed ha preso compiaciuto l'essere padre di tutte le genti (quando, poi, non sono abortite) e dalla moltiplicazione dei pani ha raggiunto il miracolo della moltiplicazione dei mariti (e mogli ovviamente)... miracolo che, certamente, non ha bisogno di Dio per essere compiuto.
 
4 Ultime rapsodiche considerazioni

Ma veniamo, infine, alla più spinosa delle osservazioni di fra Luca Refatti – il quale è eccezionalmente bravo a scovare le eccezioni: "(La castità) è eccessiva anche perché è una scelta che coinvolge anche il nuovo compagno o compagna. Cosa fare se l'altro non accetta? Se minaccia una nuova separazione, rinnovando dolore e sofferenze per i figli? Imporre la propria castità potrebbe rivelarsi un'azione imprudente e dannosa" [Fra Luca Refatti op, La Comunione ai risposati, tratto da http://vitaefratrum.blogspot.it/2015/01/la-comunione-ai-risposati.html#more]. Debbo ammettere che tra tutte le precedenti osservazioni questa è quella che pone più in crisi la ricerca di una strada che si fondi sulla castità. È vero, tale virtù è un dono, una grande carità, ma potrebbe rivelarsi inopportuna, se provoca maggior danno dei benefici che promette.
 
Tale principio è formalmente postulato dall'apologia al proprio martirio che perpetra Sant'Ignazio di Antiochia ai Romani. Quando questi ultimi vedono giungere il grande discepolo dell'Apostolo Giovanni, Ignazio, stretto da ruvide catene, cercano immediatamente di salvarlo dalla condanna a morte. Inizia, così, una campagna da parte della nobile cristianità romana per la liberazione del saggio vescovo presso l'imperatore. È proprio il santo antiocheno a raffreddare l'entusiasmo a suo favore, scoraggiandolo ampiamente nella sua lettera ai Romani: Egli giudica il più grande dei doni dare la vita per Cristo. Così la carità promossa dalla comunità quirina, pur rimanendo carità, viene giudicata dal padre apostolico come inopportuna (Cfr  Sant'Ignazio di Antiochia. Ai Romani I,2-II-III-IV), perché gli sottrae una carità più grande: la corona eterna.
È su tale scia che s'instrada l'obiezione del mio confratello, laddove la castità potrebbe rischiare un'altra frattura fra padre e madre nella 'nuova famiglia', così da dare scandalo ai piccoli, cioè ai figli che di tutte queste ardue situazioni non sono responsabili. Vi è una carità, quindi, che rischia di privare altri di una carità.
A questo rispondo che anzitutto è un caso limite, per cui opporrò un altro caso limite per arrivare secondo l'analogia ad una conclusione onnicomprensiva: se un uomo minaccia di uccidere un bambino qualora io non facessi apostasia, avrei sul piatto della bilancia due carità, dove la scelta della prima implica il rischio di perdere la seconda, mentre la scelta della seconda certamente smarrisce la prima. Di fronte a questo, cioè tra il rischio e la certezza, l'abbandono alla Provvidenza di Dio - che altrettanto certamente opera - suggerisce che si scelga il rischio. Ma se le condizioni che sono esterne alla persona sono incerte, quelle interne sono certe, ossia certo è solo ciò di cui in ultima analisi dispongo, così io non dispongo delle circostanze in cui mi trovo, ma della mia libertà dispongo in maniera definitiva: per quando condizionabile, spetta a me il mio assenso ed a me solo.
Così è certo che, se apostatizzo, compio un atto contro Dio e perdo la carità di Dio. Ma d’altrocanto non è altrettanto certo che l'uomo che minaccia adempia al suo proposito, qualora rifiutassi di piegarmi alla sua intimidazione; delle circostanze, infatti, pienamente dispone solo Dio. A me, quindi, è chiesta una cosa sola, l'estrema per sino dolorosa coerenza: laddove sono giusto, fedele alla realtà delle cose, non ho colpa di nulla e rimane in me la Grazia. Laddove, invece, scendo a compromesso certamente ho materia di colpa, anche se può mancare la piena vertenza o non è pieno il deliberato consenso. Più prudente è evitare la materia, perché essa esclude in toto il peccato mortale, ma se si ammette la materia grave, allora è tutto un gioco nebuloso di coscienza. Se la persona risposata accetta di buon grado la castità, non la si deve scoraggiare per paura di ritorsioni familiari: meglio rischiare un bene incerto, che perdere il bene della castità in maniera certa.
 
 
Così, alla persona si chiede la purezza di vita, cioè di accogliere il sublime dono che essa rappresenta: la prefigurazione del Cielo. Una sola cosa le è chiesta: di rimanere fedele nonostante tutto a questa iconografia esistenziale e sarà presenza del Regno. Non dobbiamo paventare di chiedere al cristiano d'essere segno di contraddizione. Il resto non è sua responsabilità, ma dipende dalla reazione del prossimo il quale è il solo responsabile delle proprie  scelte. È facile? Affatto, ma da quando i cristiani credono comoda la posizione della croce?
Alla domanda: e riguardo ai figli? Una cosa sola posso rispondere: l'uomo comune di adesso è fatalmente convinto che siano i suoi programmi pastorali a guidare le persone e a salvarle. La verità è, tuttavia, una sola: Uno Solo è il Pastore, Cristo.
 
Chi ha fiducia in Lui, sa ch'Egli opera là dove nessuna luce pare pervenire: non cerchiamo soluzioni umane, aggiustamenti da equilibristi, cerchiamo la radicalità del Verbo Incarnato. Affidiamoci. Proponiamo la lealtà alla Sua Provvidenza. Questa non potrà mai tradirci. Egli guida i cuori da dentro, più di quanto non possano miriadi di sacerdoti condurre da fuori. Alle situazioni drammaticamente particolari solo Lui può efficacemente adoprarSi: quei figli che rischiano nuovi drammi sono nelle mani di Dio, che è Padre più di ogni biologico padre. Può essere che l'estrema coerenza - assai più che il compromesso - alla lunga converta l'intera 'nuova famiglia' - dai figli al  compagno riottoso: questo varrebbe più di ogni altro bene. Ebbene sì, sui piatti della bilancia non v’è solo il rischio di perdere un bene (unità della para-famiglia) di fronte alla certezza di perderlo (castità), ma colla scelta dell’integrità c’è il rischio di guadagnarne un altro ancora maggiore (la conversione dell’intera ‘nuova’ famiglia)
Perciò non possiamo curarci a priori di cose che Dio costruisce a posteriori; solamente, ai veri pastori è chiesta la vera pastorale: le ginocchia lise e sbucciate innanzi al tabernacolo di Cristo. Parlo della preghiera, d'immergersi fiduciosi in essa più che in ogni pagina di bell'eloquenza. San Domenico, infatti – stiamone certi - convertiva più anime parlando con Dio che di Dio.




(1): Libro delle Costituzioni e delle Ordinazioni dei frati dell’Ordine dei Predicatori
(2): [Nota per i tecnici della filosofia che può saltarsi tranquillamente ai fini del testo] L’espressione è molto forte e presa così, potremmo dire isolata, può suscitare un certo scompiglio intellettuale. Quale carne, infatti, ha Dio, Atto Puro e sostanza spirituale, da condividere con me? Io direi, nessuna, se non la mia, cioè quella che l’uomo nella propria miseria d’innamorato Gli offre. Quanto qui affermo, lungi dall’avere intenzioni panteiste, non vuole dire, quindi, che l’uomo diviene identico a Dio o viceversa o che Dio sia materiale: come nell’uomo e nella donna i due non divengono identici, cioè la stessa sostanza prima, così neppure ciò avviene tra il casto e Dio, che è assolutamente trascendente. Guai rinunciassimo alla Trascendenza del Essere per Sé Sussistente!
Tuttavia in primo luogo bisogna dire questo: io, scegliendo e mantenendo una castità perfetta, dono non solo la mia anima ma tutto me stesso in maniera radicale a Dio, di conseguenza anche il mio corpo che in un qual modo viene consacrato all’Altissimo e l’Altissimo manifesta la Sua Grazia in esso in maniera del tutto particolare: si guardi a grandi Santi come Santa Caterina da Siena, San Francesco.
In secondo luogo si rifletta su questo: l’amore conduce all’unione e l’unione alla somiglianza nell’irriducibile conservazione della propria identità (Cfr. San Tommaso d’Aquino, Commento ai due Precetti della Carità, Introduzione). Ora, noi ci chiediamo: Dio ama me o la mia anima? Evidentemente termine dell’amore è la persona che è l’unità di anima e corpo. Se Dio amasse solamente la mia anima, perché parliamo di resurrezione dei corpi? Ma giacché Dio ama la persona e la vuole intera, Dio la ama come unità metafisica di anima e corpo. Dio, quindi, non ama la mia anima se non in funzione di me, sicché non credo esatto dire solamente che Dio si unisca alla mia anima, ma a me, alla mia persona che è sinolo, cioè unità di anima e corpo.
Questo, però, non avviene mediante il corpo, perché esso è materia, mentre Dio assoluto spirito. Dio quindi ama me e si unisce a me mediante la mia anima, che è ciò che più di me Gli è affine. Quindi l’anima è mediazione dell’unione, ma non termine di questa, perché Dio ama fra Pietro e l’anima di fra Pietro in funzione di fra Pietro. Questa unione si riverbera quindi anche nel corpo, il quale è informato dall’anima e quindi partecipa della gioia di questa unione. Così un uomo santo è un uomo unito intimamente con Dio, non solo con la propria anima, ma con la propria umanità, cioè in tutto ciò che è, in anima e corpo. Altrimenti il suo rapporto d’amore con Dio sarebbe parziale, ossia non totalizzante. Per questo dico del casto che tende a divenire una sola carne con Dio: non per dire che Dio si faccia carne un’altra volta, poiché l’unione tra le persone e l’Altissimo è mistica e spirituale. Ma questo non esclude il corpo, al contrario lo totalizza, tanto che il corpo dei glorificati è detto corpo spirituale, perché riluce della gioia dell’anima unita indissolubilmente con Dio.
Così, nella misura in cui l’anima è essenzialmente unita al corpo come forma del corpo ed è misticamente unita con Dio, anche il corpo è unito mediante l’anima a Dio, dove questa unione non significa affatto fusione, ma sarebbe meglio chiamarla comunione. Potremmo dire che l’unione che avviene tra l’Altissimo e l’anima è diretta e quella tra l’Altissimo e il corpo partecipata di quella spirituale. Ed è l’offerta a Dio della nostra povertà, della nostra umiltà nel senso etimologico del termine, ossia della nostra terrenità e materialità, che Dio non si stanga di guardare nei suoi servi.
(3) Parliamo, di fatti, dell’ambizioso quanto estremamente affascinante progetto spirituale esposto da Solov’ëv nei Fondamenti della Vita Spirituale, di materializzazione dello spirito e di spiritualizzazione della materia

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