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23 ottobre 2015

Un clandestino al Sinodo IV: una soluzione liturgica



1 Il provocatore intelligente: l'ammonitio metodica di fra Luca Refatti op

Molto acuta è l'ammonizione di un mio confratello che ci rammenta una verità essenziale del problema, rendendo una chiave metodica irrefutabile per affrontarlo: "A titolo di premessa, teniamo bene a mente che l'opposizione legge-misericordia esiste solo nelle nostre teste, mentre in Dio legge e misericordia sono assolutamente la stessa cosa. Per Dio la legge è carità e la carità è legge. A noi spetta recuperare la coscienza di questa intrinseca unità e tenerla ben presente nei dibattiti che seguiranno.

Per i padri sinodali la carità dovrà essere la suprema regola di condotta e ogni legge che regolerà la vita della Chiesa dovrà essere un'espressione della misericordia di Dio verso l'uomo" [Fra Luca Refatti op, La Comunione ai risposati, tratto da http://vitaefratrum.blogspot.it/2015/01/la-comunione-ai-risposati.html#more]. Questo principio teoreticamente bilanciato come un carion deve fungere da bussola per un cammino di cui, sempre con una stimabile chiarezza, fra Luca ci rende l'intenzione e la direzione: "In relazione al dibattito sinodale, la domanda vera non è se i divorziati risposati possano fare la comunione o meno, ma come aiutare chi vive una situazione complicata dal punto di vista umano, morale e sacramentale a tornare in piena comunione ecclesiale. Si tratta di indicare una via verso la felicità e la santità, e non di trovare una scorciatoia per accedere a un sacramento, né di accontentarsi di ribadire una verità, disinteressandosi di chi deve viverla" [Ibidem]. Credo sia molto sapiente questa visione, perché molto aderente al reale, dove la sapienza è la virtù di colui che si pone alla semplice sequela della realtà, non rifiutandola in alcuna sua parte. Cristo, infatti, fondamento stesso della realtà che per mezzo di Lui è stata fatta (Cfr Col 1; Gv 1), non si è accontentato di dire il vero, di riprovare il peccato, ma ha tracciato un sanguinoso solco a suo discapito perché potessimo uscire dalla selva oscura: ammonire non guarisce il peccatore dalla sua debolezza, gliela rivela soltanto. E così sapere di essere nel fango, immerso nel vortice di mortali sabbie mobili, non implica l'occasione di uscirvi, ma solo pone l'inizio di una riflessione per trovar la maniera di scampare alla morte. La riprensione del male è, perciò, condizione necessaria – chi ignora la malattia non può guarirne – ma non sufficiente alla salvezza.
 
Per vincere il male bisogna averne la forza: il punto è da cosa si trae questa forza? Non da se stessi, se si è già succubi degl'incubi del peccato. Da cosa allora? Deve venire necessariamente dall’esterno, fuori dalla nostra condizione di incatenati. Vi sono alcuni, tra cui alti prelati e cardinali, che propongono proprio l'Eucaristia - pane del gran viaggio che è la vita - senza cui certamente si viene meno. Innanzi a questa considerazione anzitutto ripropongo un pensiero del mio confratello che riguarda coloro che domandano il Santissimo Sacramento, più che coloro che lo amministrano: l'Eucaristia non è un patentino sociale che si deve somministrare o rilasciare con carta da bollo sinodale perché i peccatori non si sentano esclusi dalla comunità. L'Eucaristia, come primo fondamentale fattore, è il Corpo Stesso di Cristo, che si rende realmente, veramente e sostanzialmente presente in quel pezzetto di pane nella Sua Infinita Divinità e nella Sua natura di uomo, quindi in anima e corpo. 
 
2 Un dato di fatto

È di fronte a questo fatto che mi rincresce definire assolutamente stolto ricorrere all'Eucaristia come soluzione. Una cosa che mi ha sempre colpito enormemente della Chiesa è la sua logica assolutamente fattuale, nel senso che essa considera solo i dati di fatto contro cui non può esservi argomento, come dicevano gl'antichi padri aristotelici. Questo la Sposa di Cristo lo compie dall'Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Cristo, all'umanità del feto e alla natura della sessualità umana.
La Chiesa non desidera nulla più che la veridicità dei fatti, perché essa nasce - come la sua fede - dalla tradizione prima orante, orale e poi scritta di quanto accadde a Gesù il Nazareno. Quando perciò essa si pronuncia con fermezza, è in virtù di quel Fatto o di tutto ciò che in quanto fatto è per genere fratello dell'evento di Cristo. Questi ha la pretesa sua personale di essere scopo ultimo e ordinatore di ogni avvenimento, tanto che afferma di Sé alla soglia della morte: "Tutto è compiuto" (Gv 19,30) Sono illusi coloro che credono che la Chiesa voglia imporre dottrine, quasi scheletri mentali di idee oramai desuete. Molti fraintendono e leggono ad esempio i dogmi come categorie a priori con cui una struttura sociale umana aggioga o persuade le persone. I dogmi non sono idee, né opinioni, né teorie onnicomprensive come l'evoluzione di Darwin o la relatività di Einstain; queste, per quanto geniali, rimarranno sempre teorie e l'inesauribile reale che tentano di spiegare sarà loro sempre innanzi di un passo ineffabile.
Ben altra cosa è il dogma. L'umanità e la divinità di Cristo, Maria madre di Dio, la Sua Perpetua Verginità e l'Eucaristia sono fatti che, non solo sono accaduti, ma che il cristiano ha la pretesa di dire che in un qual modo continuano ad accadere. Tale continuità è data dai sacramenti che sono per noi l'odiernità  di Dio. Se sono eventi, sono cose che o si accettano siano avvenute oppure si ignorano. Il problema della Chiesa è farsi, quindi, cassa di risonanza e luogo dell'intelligibilità di questi fatti straordinari che costituiscono la storia della salvezza.
Che ci voglia qualcosa di straordinario, poi, è ovvio: una salvezza che provenisse dall'ordinario, cioè da tutto ciò che fa parte della logica in cui siamo immersi - come la scienza, la tecnica, le filosofie umane - non può salvare l'uomo dalla fatale ordinarietà da cui provengono. In effetti è molto più logico che la salvezza sia qualcosa che venga fuori dal nostro ordine di idee, ossia extra – ordinario, per dissolvere l'ineludibilità delle morte e della corruzione. Un essere mortale non può fare nulla d'immortale e un essere corrotto nulla d'incorruttibile, checché ci provino e riprovino i positivisti.
La Chiesa non ha alcuna pretesa, non impone nulla più di quanto l'evidenza dell'essere e del dato rivelato - colle loro dirette implicazioni - già imponga. Ci sono così dei dati di fatto da tener presente nell'affrontare il problema dell'Eucaristia ministrata a coloro che ne sarebbero, in vero, esclusi, non perché la comunione escluda - essa è una forza centripeta - quanto piuttosto dobbiamo ribadire che l'unico modo per non riceverla è escludersene.
Ecco che il primo dato di fatto è l'identità sacramentale tra Cristo e l'Eucaristia, ossia quanto a sostanza sono la medesima cosa.
 
Questo pone che, quando riceviamo Gesù sotto le specie del pane e del vino, si attua in noi una sorta di trasfusione di sangue. Non dico che la Comunione sia un trasfusione di sangue, questo sarebbe un parlare miope. Cristo, infatti, non ci comunica il suo gruppo sanguigno AB (1), ma l’interezza della Sua Vita, tutto Se Stesso. Voglio piuttosto proporre l’immagine della trasfusione per comprendere come funzioni l’Eucaristia e questo lo giustifico in virtù di un’immagine che le Scritture Stesse usano: sangue e vita nella Bibbia sono praticamente sinonimi. Così il Salvatore versa il Suo Sangue nel nostro, la Sua Vita nella nostra vita.
Ora, come accade quando due gruppi sanguigni non sono compatibili che la tragica conseguenza sia una morte atroce e tormentosa, così pure avviene con l’Eucaristia. Se l’uomo che La riceve non è idoneo a riceverLa, ossia il suo tenore di vita non è compatibile con la Vita di Cristo, ne rimane ucciso spiritualmente.
Il secondo dato di fatto è l'elemento che rende la, per così dire, compatibilità tra questi gruppi sanguigni, tra quello Divino di Cristo e quello dell’uomo che deve essere salvato: la Grazia. Chi è in grazia e lungi da una condizione di peccato mortale – ossia si trova in una condizione idonea - è in grado di ricevere l'Eucaristia, altrimenti il Sacratissimo Sangue risulterebbe per lui una devastante trasfusione: l'impurità, del resto, non può tollerare la purità e piuttosto si autodistrugge e questo è quanto di fatto accade invisibilmente all'anima.
Allora, qualora si voglia il bene reale dei divorziati risposati - che vivono attivamente da sposi quali non sono, in una situazione nemica alla Grazia di Dio, ossia adultera - non credo si dovrà ricorrere all'Eucaristia. Si farebbe loro di fatto un grave male, anche peggiore della loro stessa condizione mortale di peccato: un sacrilegio.  Allora è bene rammentarci l'ammonimento paolino: "Perciò chiunque mangia il pane o beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore" (1 Cor 11,27). Se vogliamo la salvezza di queste persone il tracciato non può incominciare così, giacché la Grazia dell'Eucaristia è una Grazia che presuppone la Grazia, quella dello stato di vita.
 
3 La via della penitenza: la purificazione

La proposta che scaturisce dalle tempie industriose di alcuni è la riammissione non troppo difficoltosa dei divorziati risposati alla piena comunione ecclesiale. Le vie sono le più svariate, una di quelle più considerate è la posizione di un certo porporato che incoraggia ad un lungo periodo di penitenza e purificazione a cui i risposati si sottopongono per poter riaccedere alla loro completa vita cristiana. Tale periodo, però, si conclude con la riammissione piena non del singolo, ma della nuova coppia. È quindi una purificazione ben accetta, non cambiando nulla di fatto, cioè non chiedendo all'uomo di essere un uomo nuovo. Non stupitevi allora della mia personalissima perplessità: se la condizione di partenza coincide con quella di arrivo, la penitenza – che non ha alcun valore in sé ma in vista della conversione - verso cosa converte? Verso ciò da cui ha preso le distanze?
 
La penitenza cristiana non è una tassa per i propri peccati, come alcuni potrebbero credere ingannandosi. Credo che il Cristo chiamasse i pubblicani dai banchi cambiavalute non perché divenissero pubblicani spirituali con tanto di tavoletta impomatata di cera per segnarsi colpe e controcolpe di ciascuno. Dio non è un questore, né un esattore delle imposte. Non copre forse ogni cosa la carità (Cfr 1 Cor 13,7)? La penitenza è una trasfigurazione di sé, una pasqua nel vero senso della parola, ossia un passaggio dallo statuto di carnefice di Cristo a quello di Agnello Immolato, dove si patiscono su di sé le piaghe inflitte  a Cristo. Chi pecca, infatti, continua a crocifiggere Cristo (Cfr Eb 6,4-6). Così, se mosso dall'amore, si muove alla penitenza per soddisfare l'ingiustizia compiuta verso il proprio amore. Come tale non è il versamento di una quota o una sorta di multa: l'amore è prezzo a se stesso ed è la propria valuta. La penitenza è una rinnovata offerta d'amore: se l'amore è stato ferito, chi ama desidera soffrire la ferita dell'amore per ricostituire l'unità perduta. Divenendo così occasione di compassione, la sofferenza diviene il punto di partenza per ricostituire la comunione degl'amanti, in tal caso la comunione con Dio. E qui v'è tutta la sottigliezza del pensiero cristiano che fa della frattura del cuore, apertura, ossia l'occasione di un suo strutturale ampliamento perché possa contenere più amore.
 
4 Un tentativo di soluzione nella liturgia: il ruolo dei penitenti
 
Nella liturgia si dimentica che l'Eucaristia non è un semplice banchetto: alle cene si va, fondamentalmente, per mangiare; all'Eucaristia no. Se la liturgia eucaristica fosse un mero convivio, non solo non avrebbe senso andarci e digiunare – come prescritto in caso di peccato mortale; ma non avrebbe proprio senso andarci, giacché è più succulento e gustoso un piatto di sugose lasagne apparecchiate nella comodità di casa che un pezzettino di pane azzimo bagnato appena nel vino - quando non capita il presbitero beone che si sbaffa tutto il calice di vin dolce. Non solo, per mangiare quella miseria bisogna pure sorbirsi la fila e un carnevalesco individuo che da un sontuoso leggio arguisca sui massimi sistemi.

Nell'Eucaristia la parte conviviale indubbiamente v'è e deve essere mantenuta, ma sottolineandone l'eminenza familiare con Dio che essa rappresenta. L'Eucaristia è anzitutto memoriale della Pasqua di Gesù, è Sacrificio. Come tale ognuno partecipa gradatamente al Suo Compimento, sia come sacerdoti, nel comune battesimo e nel sacramento dell'ordine, sia come altari, nella quotidianità delle nostre vite da dove deve salire perpetua offerta, sia come vittime, con le nostre sofferenze. Coloro che sono in uno stato di peccato mortale debbono assolvere al precetto domenicale e, se possono, partecipare anche alla Messa Feriale. Perché? Indubbiamente essi soffrono e soffrono perché non possono accedere al culmine e alla fonte della vita stessa, Gesù Sacramentato. Questa sofferenza solo loro possono offrirla, solo loro possono comunicarla e quindi renderla presente in quel pezzetto di pane transustanziato per tutti, comunicandi e impossibilitati. Il loro astenersi diviene quindi una loro grazia specifica di cui tutta la Chiesa benefica. Se tuttavia sono scoraggiati a venire e non partecipano, nessuno può offrire per loro quel dolore che, tutto particolare, li caratterizza. Così nessuno può beneficarne. Vedete, la partecipazione alla Messa permuta anche lo stato di peccato mortale per la persona come occasione di bene ineffabile per tutta la Chiesa e questo è qualcosa di magnifico ed edificante.  


(1): Così risulta dagli studi sulla Sindone che personalmente credo attribuibile con una discreta sicurezza a Cristo
 

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