La presenza domenicana a Piacenza risale all’anno 1219. In quell’anno, infatti, il Santo Fondatore era rientrato a Bologna dove aveva incontrato fra Bonviso e, conosciute le sue predisposizioni, lo aveva esortato a tornare nella sua città dove avrebbe sicuramente portato a buon fine la missio predicandi.
Di fronte alla nascita e allo sviluppo dell’eresia la Chiesa piacentina, come le altre Chiese occidentali, non è in grado di replicare. Presso i fedeli resta vivo il desiderio di un ritorno alla povertà evangelica, ma il clero secolare non è in grado di dare ai fedeli quell’immagine di virtù che si aspetta la nuova sensibilità religiosa. I benedettini si erano da sempre stabiliti nell’ambiente rurale e il monastero di San Sisto, collocato alle porte della città, non è in grado di fornire un bastione contro lo sviluppo dell’eresia. Anzi è proprio nei quartieri vicini che essa si diffonde tra gli artigiani che sono venuti a stabilirsi in città. I vescovi e i capitoli ormai partecipano al benessere economico che ha conquistato tutto l’Occidente dopo l’XI secolo e molti di essi sono diventati ormai dei ricchi proprietari fondiari e a Piacenza, come in molte altre città, non sono preparati a dare risposte alle inquiete domande di una religiosità che si fonda sulla povertà evangelica.
È tuttavia compito della Chiesa quello di assicurare la propria presenza all’interno dell’ambiente urbano e presentare ai nuovi cittadini un volto che vada incontro alle istanze di cui si fanno portatori gli eretici. In città il lavoro industriale e i suoi guadagni, la circolazione del denaro attraverso gli affari commerciali, il posto occupato dall’usura negli scambi commerciali e i guadagni bancari finiscono col preoccupare il clero e i laici più pii. Alcuni nuovi ordini venuti dalla Linguadoca e dall’Italia centrale o sorti pressoché spontaneamente negli ambienti urbani del nord Italia, tentano allora di portare a Piacenza risposte ai principali motivi di inquietudine religiosa.
Gli ordini dei frati predicatori e dei frati minori si stabiliscono rapidamente a Piacenza. Fin dal 1221 papa Onorio III scrive al capitolo della cattedrale per raccomandargli i frati predicatori che si sono stabiliti l’anno precedente presso il priorato di San Giovanni in Canale.
Tre piacentini avevano immediatamente risposto all’appello di San Domenico: i fratelli Bonifacio, Alberto e Giacomo da Castell’Arquato che seguivano l’esempio di frate Bonviso che si era unito a Domenico già nel 1217. Degli inizi del priorato di Piacenza sappiamo poco. I piacentini offrono generosamente denaro e mano d’opera per aiutare i frati predicatori a costruire i fabbricati del priorato e nel frattempo un canonico del monastero dei Dodici Apostoli di nome Ruffino, benevolmente disposto nei loro confronti, si fa promotore presso il curato e rettore di Sant’Andrea in Borgo dell’iniziativa di cessione ai frati predicatori della stessa chiesa di Sant’Andrea e delle case annesse con l’approvazione del vesc1ovo e di coloro che di quella parrocchia avevano il giuspatronato.
I Predicatori lasciano Sant’Andrea solo quando dei benefattori, riconosciuta l’angustia della loro situazione …"loro donarono un nuovo sito su la Parrocchia di S. Maria del Tempio presso il canale detto la Beverora, dove ben tanto diedero principio alla fabbrica di una Chiesa e di un Convento assai capace, sotto il titolo di S. Giovanni Battista".
La chiesa di S. Giovanni è denominata in canalibus perché si trova al centro di un reticolo di corsi d’acqua che si diramano dal canale della Beverora, chiamato così perché abbeveraggio per animali ed alimentazione delle molinerie, che entrava in città da porta San Raimondo e scorreva a cielo aperto. Il convento di S. Giovanni appartiene al primo gruppo di fondazioni volute dallo stesso Domenico in città che, come Piacenza, erano sedi vescovili situate lungo le più importanti vie di comunicazione.
La fama dei Predicatori si propaga nella città e nel contado promuovendo il concorso di generosi e devoti benefattori a favore della costruzione della chiesa e del convento. Proseguono negli anni gli acquisti di piccoli appezzamenti di terreno sempre ubicati tra il rivo dei Templari e la Beverora. Agli acquisti effettuati dai domenicani si aggiungono sempre più numerose le donazioni private e questo fa dedurre che all’incirca negli anni 1230-31 i frati potevano già disporre di un edificio chiesastico con annessi alloggi. Anche le autorità si interessano dei problemi dei domenicani e il 6 giugno 1237 con un atto rogato dal notaio Guido Musso il comune di Piacenza acquista da Opizzo e Rinaldo Aghinone una casa con cascina e terreno che nel mese di dicembre, in occasione di un consiglio della città, il Podestà Zeno dona ai Padri Predicatori di S. Giovanni nella persona del priore Giacomo da Castell’Arquato.
Chiesa e convento sorgono secondo i criteri dettati dalle Costituzioni. Infatti come i Cistercensi i Domenicani aspirano ad un architettura sobria e spoglia, che risponda a criteri di estrema semplicità e funzionalità con lo scopo di salvaguardare lo spirito di povertà espresso dal fondatore. La chiesa di S. Giovanni risponde a tutti questi requisiti: è semplice e funzionale, lo spazio è ampio ma al tempo stesso raccolto.
Nel frattempo piccoli appezzamenti di terreno, zone ortive e modeste case vanno componendo, ad un livello inferiore rispetto alla sede dove scorre il canale della Beverora, la vasta area quadrangolare nella quale si imposta l’impianto generale del complesso.
L’assetto primitivo prevede che la chiesa e l’edificio conventuale sorgano attorno ad uno spazio quadrato, il futuro chiostro, che è destinato alla meditazione ed alla ricreazione dei frati. Il chiostro, oltre ad assicurare silenzio e tranquillità che sono condizioni indispensabili ad una vita ascetica, assolve anche ad una funzione fondamentale nella vita di una comunità religiosa: quella cimiteriale. Nel primo chiostro di San Giovanni, detto appunto dei morti, venivano infatti sepolti oltre ai Padri anche i numerosi benefattori che per testamento vi eleggevano le loro sepolture.
Il convento doveva contenere le strutture indispensabili ad una comunità autonoma e queste si disponevano attorno ai chiostri all’interno di un’area recintata che garantiva la clausura. La comunicazione con l’esterno avveniva solo sul sagrato oppure attraverso la porta del convento o quella della chiesa. Uno dei primi edifici ad affiancarsi alla chiesa si ipotizza sia quello ad est che comprende la sacrestia, la sala capitolare e il dormitorio, seguito ad ovest da un fabbricato parallelo con il refettorio, la cucina, l’infermeria e gli ambienti di servizio. Per realizzare tutto ciò la prima generazione di frati, che viveva di offerte spontanee, si ritiene abbia adottato una formula costruttiva ispirata al principio di povertà, poco costosa e realizzabile in poco tempo.
Verso la fine del XIII secolo la disponibilità di apprezzabili rendite e di benefici immobiliari consente ai domenicani di migliorare la qualità degli ambienti e dotare il complesso di ulteriori strutture rispondenti alle accresciute necessità.
Fin dal loro arrivo, dunque, i Predicatori si inseriscono nel tessuto urbano a differenza degli ordini benedettini precedenti che si insediano prevalentemente nel contado. La popolazione li accoglie benevolmente e i testamenti possono essere presi come prove dell’influenza di questi frati sulla pietà cittadina. Ad esempio il 4 agosto 1231 Dolcea, sposa di Bernardo Monaco da Turro, madre del domenicano Bonviso, lascia in legato “pro anima”, per la costruzione della chiesa dei frati Predicatori, duemila tegole, senza contare la parte di eredità che deve andare a Bonviso e che egli non può alienare ai suoi fratelli. Un altro esempio è il testamento di Adelasia vedova di Pietro Diano: essa lega il 9 agosto 1235, trenta lire alle istituzioni caritative, ovverosia dieci agli infermi di San Lazzaro, cinque ai frati minori per atti di carità, cinque ai frati predicatori per dire messe per la salvezza della sua anima, il resto era ripartito tra diversi ospizi e fondazioni.
Gli ordini mendicanti trovano così un largo favore presso il pubblico piacentino e le donazioni affluiscono ai due ordini. Tuttavia la pratica testamentaria nel XIII secolo si addice soprattutto alla gente agiata ma anche una parte assai modesta di gente umile redige testamenti; nel loro caso le donazioni sono riservate soprattutto alle chiese parrocchiali e alle istituzioni caritative. Così si delinea una specie di linea di demarcazione tra i due gruppi sociali: gli ordini mendicanti ricevono un’accoglienza più favorevole da parte degli ambienti agiati, mentre gli Umiliati sono più vicini ai ceti umili.
Come spiegare il successo riportato dagli ordini mendicanti presso l’aristocrazia? In un’epoca in cui il problema della povertà evangelica è al centro delle preoccupazioni dei cristiani, i frati mendicanti portano all’aristocrazia fondiaria e ai mercanti una particolare sicurezza. Impegnati in operazioni in cui il profitto costituisce la molla propulsiva, gli aristocratici vedono nei frati mendicanti l’antidoto ai loro peccati; le donazioni a questi ordini paiono loro come il sistema per ottenere il perdono e la ricompensa della vita eterna, facendo dimenticare i peccati della loro vita terrena. Sia che si tratti di un sentimento profondo di carità o di un atteggiamento opportunistico alle soglie della morte, non resta meno vero che i frati domenicani e francescani sono stati largamente dotati e sostenuti dall’aristocrazia e dal ricco ceto mercantile.
Di fronte alla nascita e allo sviluppo dell’eresia la Chiesa piacentina, come le altre Chiese occidentali, non è in grado di replicare. Presso i fedeli resta vivo il desiderio di un ritorno alla povertà evangelica, ma il clero secolare non è in grado di dare ai fedeli quell’immagine di virtù che si aspetta la nuova sensibilità religiosa. I benedettini si erano da sempre stabiliti nell’ambiente rurale e il monastero di San Sisto, collocato alle porte della città, non è in grado di fornire un bastione contro lo sviluppo dell’eresia. Anzi è proprio nei quartieri vicini che essa si diffonde tra gli artigiani che sono venuti a stabilirsi in città. I vescovi e i capitoli ormai partecipano al benessere economico che ha conquistato tutto l’Occidente dopo l’XI secolo e molti di essi sono diventati ormai dei ricchi proprietari fondiari e a Piacenza, come in molte altre città, non sono preparati a dare risposte alle inquiete domande di una religiosità che si fonda sulla povertà evangelica.
È tuttavia compito della Chiesa quello di assicurare la propria presenza all’interno dell’ambiente urbano e presentare ai nuovi cittadini un volto che vada incontro alle istanze di cui si fanno portatori gli eretici. In città il lavoro industriale e i suoi guadagni, la circolazione del denaro attraverso gli affari commerciali, il posto occupato dall’usura negli scambi commerciali e i guadagni bancari finiscono col preoccupare il clero e i laici più pii. Alcuni nuovi ordini venuti dalla Linguadoca e dall’Italia centrale o sorti pressoché spontaneamente negli ambienti urbani del nord Italia, tentano allora di portare a Piacenza risposte ai principali motivi di inquietudine religiosa.
Gli ordini dei frati predicatori e dei frati minori si stabiliscono rapidamente a Piacenza. Fin dal 1221 papa Onorio III scrive al capitolo della cattedrale per raccomandargli i frati predicatori che si sono stabiliti l’anno precedente presso il priorato di San Giovanni in Canale.
Tre piacentini avevano immediatamente risposto all’appello di San Domenico: i fratelli Bonifacio, Alberto e Giacomo da Castell’Arquato che seguivano l’esempio di frate Bonviso che si era unito a Domenico già nel 1217. Degli inizi del priorato di Piacenza sappiamo poco. I piacentini offrono generosamente denaro e mano d’opera per aiutare i frati predicatori a costruire i fabbricati del priorato e nel frattempo un canonico del monastero dei Dodici Apostoli di nome Ruffino, benevolmente disposto nei loro confronti, si fa promotore presso il curato e rettore di Sant’Andrea in Borgo dell’iniziativa di cessione ai frati predicatori della stessa chiesa di Sant’Andrea e delle case annesse con l’approvazione del vesc1ovo e di coloro che di quella parrocchia avevano il giuspatronato.
I Predicatori lasciano Sant’Andrea solo quando dei benefattori, riconosciuta l’angustia della loro situazione …"loro donarono un nuovo sito su la Parrocchia di S. Maria del Tempio presso il canale detto la Beverora, dove ben tanto diedero principio alla fabbrica di una Chiesa e di un Convento assai capace, sotto il titolo di S. Giovanni Battista".
La chiesa di S. Giovanni è denominata in canalibus perché si trova al centro di un reticolo di corsi d’acqua che si diramano dal canale della Beverora, chiamato così perché abbeveraggio per animali ed alimentazione delle molinerie, che entrava in città da porta San Raimondo e scorreva a cielo aperto. Il convento di S. Giovanni appartiene al primo gruppo di fondazioni volute dallo stesso Domenico in città che, come Piacenza, erano sedi vescovili situate lungo le più importanti vie di comunicazione.
La fama dei Predicatori si propaga nella città e nel contado promuovendo il concorso di generosi e devoti benefattori a favore della costruzione della chiesa e del convento. Proseguono negli anni gli acquisti di piccoli appezzamenti di terreno sempre ubicati tra il rivo dei Templari e la Beverora. Agli acquisti effettuati dai domenicani si aggiungono sempre più numerose le donazioni private e questo fa dedurre che all’incirca negli anni 1230-31 i frati potevano già disporre di un edificio chiesastico con annessi alloggi. Anche le autorità si interessano dei problemi dei domenicani e il 6 giugno 1237 con un atto rogato dal notaio Guido Musso il comune di Piacenza acquista da Opizzo e Rinaldo Aghinone una casa con cascina e terreno che nel mese di dicembre, in occasione di un consiglio della città, il Podestà Zeno dona ai Padri Predicatori di S. Giovanni nella persona del priore Giacomo da Castell’Arquato.
Chiesa e convento sorgono secondo i criteri dettati dalle Costituzioni. Infatti come i Cistercensi i Domenicani aspirano ad un architettura sobria e spoglia, che risponda a criteri di estrema semplicità e funzionalità con lo scopo di salvaguardare lo spirito di povertà espresso dal fondatore. La chiesa di S. Giovanni risponde a tutti questi requisiti: è semplice e funzionale, lo spazio è ampio ma al tempo stesso raccolto.
Nel frattempo piccoli appezzamenti di terreno, zone ortive e modeste case vanno componendo, ad un livello inferiore rispetto alla sede dove scorre il canale della Beverora, la vasta area quadrangolare nella quale si imposta l’impianto generale del complesso.
L’assetto primitivo prevede che la chiesa e l’edificio conventuale sorgano attorno ad uno spazio quadrato, il futuro chiostro, che è destinato alla meditazione ed alla ricreazione dei frati. Il chiostro, oltre ad assicurare silenzio e tranquillità che sono condizioni indispensabili ad una vita ascetica, assolve anche ad una funzione fondamentale nella vita di una comunità religiosa: quella cimiteriale. Nel primo chiostro di San Giovanni, detto appunto dei morti, venivano infatti sepolti oltre ai Padri anche i numerosi benefattori che per testamento vi eleggevano le loro sepolture.
Il convento doveva contenere le strutture indispensabili ad una comunità autonoma e queste si disponevano attorno ai chiostri all’interno di un’area recintata che garantiva la clausura. La comunicazione con l’esterno avveniva solo sul sagrato oppure attraverso la porta del convento o quella della chiesa. Uno dei primi edifici ad affiancarsi alla chiesa si ipotizza sia quello ad est che comprende la sacrestia, la sala capitolare e il dormitorio, seguito ad ovest da un fabbricato parallelo con il refettorio, la cucina, l’infermeria e gli ambienti di servizio. Per realizzare tutto ciò la prima generazione di frati, che viveva di offerte spontanee, si ritiene abbia adottato una formula costruttiva ispirata al principio di povertà, poco costosa e realizzabile in poco tempo.
Verso la fine del XIII secolo la disponibilità di apprezzabili rendite e di benefici immobiliari consente ai domenicani di migliorare la qualità degli ambienti e dotare il complesso di ulteriori strutture rispondenti alle accresciute necessità.
Fin dal loro arrivo, dunque, i Predicatori si inseriscono nel tessuto urbano a differenza degli ordini benedettini precedenti che si insediano prevalentemente nel contado. La popolazione li accoglie benevolmente e i testamenti possono essere presi come prove dell’influenza di questi frati sulla pietà cittadina. Ad esempio il 4 agosto 1231 Dolcea, sposa di Bernardo Monaco da Turro, madre del domenicano Bonviso, lascia in legato “pro anima”, per la costruzione della chiesa dei frati Predicatori, duemila tegole, senza contare la parte di eredità che deve andare a Bonviso e che egli non può alienare ai suoi fratelli. Un altro esempio è il testamento di Adelasia vedova di Pietro Diano: essa lega il 9 agosto 1235, trenta lire alle istituzioni caritative, ovverosia dieci agli infermi di San Lazzaro, cinque ai frati minori per atti di carità, cinque ai frati predicatori per dire messe per la salvezza della sua anima, il resto era ripartito tra diversi ospizi e fondazioni.
Gli ordini mendicanti trovano così un largo favore presso il pubblico piacentino e le donazioni affluiscono ai due ordini. Tuttavia la pratica testamentaria nel XIII secolo si addice soprattutto alla gente agiata ma anche una parte assai modesta di gente umile redige testamenti; nel loro caso le donazioni sono riservate soprattutto alle chiese parrocchiali e alle istituzioni caritative. Così si delinea una specie di linea di demarcazione tra i due gruppi sociali: gli ordini mendicanti ricevono un’accoglienza più favorevole da parte degli ambienti agiati, mentre gli Umiliati sono più vicini ai ceti umili.
Come spiegare il successo riportato dagli ordini mendicanti presso l’aristocrazia? In un’epoca in cui il problema della povertà evangelica è al centro delle preoccupazioni dei cristiani, i frati mendicanti portano all’aristocrazia fondiaria e ai mercanti una particolare sicurezza. Impegnati in operazioni in cui il profitto costituisce la molla propulsiva, gli aristocratici vedono nei frati mendicanti l’antidoto ai loro peccati; le donazioni a questi ordini paiono loro come il sistema per ottenere il perdono e la ricompensa della vita eterna, facendo dimenticare i peccati della loro vita terrena. Sia che si tratti di un sentimento profondo di carità o di un atteggiamento opportunistico alle soglie della morte, non resta meno vero che i frati domenicani e francescani sono stati largamente dotati e sostenuti dall’aristocrazia e dal ricco ceto mercantile.
[Andrea]
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