Comincia qua una serie di post di fra Pietro Maraglino sulla teologia di Ludwig van Beethoven. Seguiteci!
Cos’è che rende grande un uomo? Cos’è che porta la memoria di un uomo ad essere perpetuata nei secoli? L’immortalità è forse il ricordo che si lascia alla memoria degli uomini, luogo dove il fantasma del tempo passato ritorna più o meno frequentemente a visitarli? È la ricerca della immortalità che muove a grandi imprese? Napoleone Bonaparte che è senz’altro annoverato tra i grandi della storia – malgrado tutto ciò che al suo passaggio è conseguito – diceva: «Meglio sarebbe non aver vissuto che non aver lasciato tracce della propria esistenza». L’uomo di cui parlerò, Ludwig van Beethoven, è d’altra parte talmente grande che non avrebbe certo bisogno della parola di un Napoleone per essere introdotto, sicché, quasi con timore, mi accingo ad introdurre la sua figura e soprattutto la sua ultima opera, la sua “summa”, la 9. Sinfonia in Re minore.
Nel 1824 Beethoven, ormai completamente sordo, portò a termine la stesura della Sinfonia n. 9 in Re minore, op. 125, detta “Corale” (prima sinfonia per orchestra della storia che includeva un coro) e pare che la genialità di quest’uomo fu tale non solamente per la composizione dell’opera, ma soprattutto per essere stato in grado di dirigerla. L’evento si consumò il 7 maggio del medesimo anno, nel teatro di Porta Carinzia a Vienna con inaudita meraviglia del direttore del teatro - non avrebbe scommesso una moneta sul talento di Beethoven – ritenendolo un pazzo incapace. Pare che alla fine dell’esecuzione – a dir poco magistrale – Beethoven, che era completamente sordo, non sentì il fiume di applausi e le ovazioni che lo avevano travolto e la gente che in piedi lo osannava; si rese conto del fatto quando la solista Caroline Unger, gli indicò la folla che lo acclamava. Questo è l’uomo di genio che lasciò il segno e che, a differenza del primo – promotore di latrocinio, tirannia e corruzione – nobilitò e diede lustro al genio dell’umano oltre che alla Madre Europa culla dell’Occidente simbolo del patrimonio spirituale di valori che formano l’umano.
La nona si compone di quattro movimenti (1. Allegro ma non troppo, un poco maestoso; 2. Scherzo: Molto vivace – Presto; 3. Adagio molto e cantabile; 4. Presto - Allegro assai), si conclude con un’Ode ed una successiva fuga imperniate sul testo di F. Schiller “An die Freude”. Vedremo come quest’Ode si perpetuerà in ogni nota e movimento melodico. La sua musica è colta, non era e non è per tutti: ogni struttura, ogni frase, ogni movimento, sono frutti e conseguenze di meditazione, di ragionamento e di teoresi. È una musica che vuol manifestare la sua proposta “speculativa”. Beethoven, infatti, non compose per intrattenere il pubblico o per il suo diletto, no, non si aspettava che la sua musica fosse per tutti, non è musica popolare.
Vergando il pentagramma, dando sonorità all’inchiostro componendo la Nona, il maestro pretese che tutti i futuri ascoltatori non si limitassero ad un immediato ascolto, ma che fossero da essa trasportati, direi trasfigurati nella contemplazione del vero come orizzonte che s’apre davanti ad un tortuoso ed impervio ragionamento. Era perciò necessario un ascolto ripetuto più e più volte perché lo spirito del maestro, che anima la sinfonia, permei e si impossessi dell’ascoltatore, solo allora si può forse tentare di comprendere il genio e la sua illuminazione. Inoltre, come ben dice A. Salvato in Fenomenologia della Musica: «La consistenza dell’opera si estende ben oltre il piano fisico dell’udito, ovvero del piacere generato nell’ascoltatore: essa sconfina nell’ambito metafisico, e può esprimersi con il medesimo rigore logico di un ottimo trattato» ed io aggiungo fino ad accarezzare la vetta speculativa di una vera teologia. Beethoven, in altri termini, sapeva che questa sinfonia avrebbe cambiato il futuro della musica, sapeva che una creazione musicale simile, mai fu pensata prima di lui e mai avrebbe potuto esserlo in futuro. Sembra sia possibile riscontrare l’atteggiamento psicologico e profetico di Dante quando scrive: «O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, ché forse, perdendo me, rimarreste smarriti. L’acqua ch’io prendo già mai non si corse» (Divina Commedia, Paradiso, II).
Fr. Pietro Maraglino
Continua...
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