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31 gennaio 2015

La comunione ai risposati?

Il sinodo straordinario per la famiglia è stato un periodo di grazia per lo studentato domenicano bolognese, dove ci si è esercitati a riflettere insieme e a discutere (quasi) pacificamente. A qualche mese di distanza da quelle frizzanti settimane e in preparazione al prossimo sinodo vorrei proporre qualche mia riflessione riguardo alla questione della comunione ai divorziati risposati, con quel pizzico di presunzione tipico degli studenti che – come nel mio caso - non hanno ancora finito di leggere il loro primo libro di teologia.

Il dibattito sinodale si è sviluppato intorno all'antitesi tra “misericordia” e “legge”. “Il partito della misericordia” - la definizione è forse un po' rozza, ma rende l'idea - sostiene l'opportunità di concedere, almeno in alcuni casi, la comunione ai divorziati risposati. Il cambiamento dell'attuale disciplina andrebbe fatto in ragione della carità, la suprema legge della Chiesa, che regola tutte le altre, diritto canonico e indirizzi pastorali inclusi. “Il partito della legge” sostiene che una simile apertura sarebbe un grave allontanamento dalla dottrina della Chiesa, a cui la carità stessa ci impone di rimanere fedeli. Ponendo la questione in questi termini, si finisce inevitabilmente in un vicolo cieco. Ogni concessione alla misericordia va a discapito della legge e viceversa. Non esiste, infatti, un criterio per stabilire quale sia il giusto equilibrio tra l'una e l'altra e si corre sempre il rischio di essere o eccessivamente rigoristi o eccessivamente lassisti. Per trovare il bandolo della matassa si deve pensare l'intero problema diversamente, abbandonando sterili contrapposizioni e ripartendo dalle finalità stesse che muovono la Chiesa a ripensare la propria pastorale familiare.

A titolo di premessa, teniamo bene a mente che l'opposizione legge-misericordia esiste solo nelle nostre teste, mentre in Dio legge e misericordia sono assolutamente la stessa cosa. Per Dio la legge è carità e la carità è legge. A noi spetta recuperare la coscienza di questa intrinseca unità e tenerla ben presente nei dibattiti che seguiranno. Per i padri sinodali la carità dovrà essere la suprema regola di condotta e ogni legge che regolerà la vita della Chiesa dovrà essere un'espressione della misericordia di Dio verso l'uomo.

Il secondo passo è riconquistare la consapevolezza del fine a cui ogni azione della Chiesa deve tendere, e cioè alla salvezza delle anime. In relazione al dibattito sinodale, la domanda vera non è se i divorziati risposati possano fare la comunione o meno, ma come aiutare chi vive una situazione complicata dal punto di vista umano, morale e sacramentale a tornare in piena comunione ecclesiale. Si tratta di indicare una via verso la felicità e la santità, e non di trovare una scorciatoia per accedere un sacramento, né di accontentarsi di ribadire una verità, disinteressandosi di chi deve viverla. Per questo compito non si risparmino energie e fantasia, il coraggio di osare e l'aiuto del Santo Spirito. Ai padri sinodali è, quindi, richiesto di illuminare le coscienze dei pastori, affinché questi sappiano tracciare un sentiero dove sembra non essercene alcuno. 

La situazione più spinosa si verifica quando dalla seconda unione nascono dei figli. In casi simili una rottura del nuovo legame potrebbe essere sconsigliabile. Una soluzione, tradizionale e ribadita anche da alcuni miei confratelli sulla rivista Nova et Vetera, è la castità. Per uscire da uno stato di peccato dovuto a seconde nozze, la castità è, sicuramente necessaria, ma anche insufficiente  ed eccessiva. E' necessaria, perché solo essa esprime, significa e realizza, persino in un contesto di relazioni ferite, quel primo legame amoroso che non può essere sciolto. E' insufficiente, perché non implica una riconciliazione (o almeno una aperta, generosa e concreta disponibilità a farlo) con lo sposo o la sposa da cui si è divorziati. Ponendola come unico criterio dirimente, si rischia di trasformarla in una esosa tassa per l'accesso al sacramento e di privarla del suo significato profondo e spirituale. E' eccessiva, perché richiede una piena consapevolezza del bene (molto arduo e spesso esclusivamente spirituale) che si potrebbe riguadagnare attraverso di essa. Una tale consapevolezza richiede una maturità e una solidità interiore che non è  immediatamente alla portata di tutti, ma è frutto di un cammino accidentato sostenuto dalla Grazia. E' eccessiva anche perché è una scelta che coinvolge anche il nuovo compagno o compagna. Cosa fare se l'altro non accetta? Se minaccia una nuova separazione, rinnovando dolore e sofferenze per i figli? Imporre la propria castità potrebbe rivelarsi un'azione imprudente e dannosa.

La cura pastorale dei divorziati risposati deve essere in grado di proporre un percorso graduale ed integrale, fatto di gesti concreti e tanta saggezza. Tra i primi passi, sicuramente, ci sarà conoscere il bene che si è perso con il divorzio e quello che si può ancora sperimentare vivendo un matrimonio interrotto e partecipando, così, al Cristo sposo di un'umanità che sempre lo abbandona. Poi c'è il perdono per chi ci ha feriti. Magari non si potrà andare oltre ad una semplice preghiera, all'offerta di una messa o a qualche altra opera di misericordia spirituale. Altre volte, si potrà tornare a parlare, a scambiarsi favori e doni, a tornare amici. Un altro passaggio importante è il coinvolgimento dei nuovi partner, che non sono e non possono essere considerati spettatori passivi. Con loro vanno condivisi sentimenti, pensieri e il percorso di maturazione. E ancora: come vivere la propria affettività all'interno della seconda coppia? I figli hanno il diritto di vedere dei genitori che siano affettuosi tra di loro. Vivere una giusta e casta affettività in un contesto di coppia non è facile. La Chiesa ha la responsabilità di fornire tutti gli aiuti, umani e divini, necessari.

Mi auguro, quindi, che il sinodo possa davvero tracciare un percorso ambizioso, ma che non scoraggi e che riaccenda la speranza e la gioia della vita cristiana. I padri sinodali dovranno stabilire, allora, a che punto di questo lungo percorso, l'accesso alla via sacramentale sia un aiuto piuttosto che un peso. Non si tratterà più, però, di far vincere la misericordia a spese della legge, o viceversa, ma di capire qual è il timing più efficace del ritorno alla comunione sacramentale, affinché chi si è messo in cammino giunga a destinazione. Ma davanti a una simile questione, il supponente studentello di teologia lascia la parola ai professori e ai pastori.

fra Luca Refatti op


5 commenti:

  1. secondo me, ma è una osservazione personale che nasce da ciò che vedo nel mondo, chi divorzia ha poca o nulla fede in Dio... non dico che la fede non l'abbiano entrambe i coniugi, anche se si avvicinano al matrimonio con già esperienze di concubinato alle spalle (fidanzamento non proprio casto, anzi... con esperienze fatte nel corso degli anni con più partner) quindi in realtà non c'è dal principio una vera comunione con Dio. Pertanto se si ha voglia di recuperare questi fratelli e sorelle sarebbe opportuno che facciano prima di tutto percorsi "catecumenali" nel senso che devono ricominciare da capo, tutto!!! e poi dopo questi percorsi possono comunicarsi con Dio. Vediamo poi quanti di questi divorziati risposati (ma anche solo divorziati) vogliano davvero fare un cammino di fede e riconciliazione. Pace a voi, e grazie per il vostro blog che mi ha permesso di esprimere questo parere. G. (donna di 33 anni)

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  2. Cara G. innanzitutto grazie per il tuo commento.
    Personalmente sono sempre un po' restio nel giudicare la fede degli altri. Non sempre, immagino, si divorzia liberamente. Spesso ci sono anni di fatiche, incomprensioni, sofferenze, solitudini. E non è facile vivere soli, magari per tutta la vita, perché non se l'è scelto. Quindi il primo atteggiamento dovrebbe essere quello di un grande rispetto e di una grande disponibilità all'ascolto. Poi, forse, ci vorrebbe anche un sforzo per comprendere il senso della propria situazione alla luce della fede e porsi in cammino. Tutti dobbiamo e possiamo aiutare, anche perché pochi di noi sono autenticamente "in vera comunione con Dio". Dobbiamo quindi essere solidali in 2 cose: nella comune situazione di peccato e debolezza e nel comune traguardo che ci proponiamo la beatitudine eterna, la comunione con Dio.

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  3. Carissimo Luca, ti ringrazio per aver risposto: non vorrei fare un dibattito ma in effetti un confronto su questo argomento non potrà far altro che arricchirci. Da ciò che abbiamo scritto, noto che c'è un errore di fondo: prima da parte mia, perchè ho detto che "non hanno fede" e per questo giustamente mi fai notare che non siamo in grado di giudicare la fede. In secondo luogo a questo punto, direi che l'errore, che si fa in generale, è quello di utilizzare troppo spesso questo termine "fede" sbagliando, perchè tutto il giudizio utile per il discernimento tra il bene e il male non va fatto "alla luce della fede" come hai scritto te invece, ma "alla luce del vangelo". Sì che la buona novella è Gesù Cristo, Verbo incarnato, che è venuto a salvarci perchè risorgendo ha vinto la morte e la prima cosa che ci chiede è di avere fede in Lui, ma a ciò vanno aggiunti tutti gli insegnamenti contenuti nella Sacra Scrittura, perchè dobbiamo seguirlo per raggiungere la beatitudine promessa.
    Non so se la Chiesa abbia intenzione di depennare i versetti 10 e 11 nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi, anche perchè lì Paolo è chiaro che non sta scrivendo un suo parare ma dice espressamente che è volontà del Signore in ordine perentorio (sarà stata una apparizione, un vaticino/legge/oracolo del Signore): "Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie." Quindi si può dire che chi (e qui non dico espressamente solo i divorziati risposati) pur avendo "fede" in Gesù Cristo non segue in realtà la Sacra Scrittura non avrà salvezza, in effetti Gesù stesso precisa: "Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli."
    Quindi è necessario che vengano seguite le strade suggerite dalle Sacre Scritture e quindi il lavoro di tutti e specialemente degli Ordinati sia quello di indirizzare i fratelli e le sorelle verso queste vie.
    Quindi oltre a professare la fede hanno il difficile compito di condurre il gregge.
    Detto ciò, è necessario che venga stabilito un percorso ad-hoc (e non vorrei che ciò fosse visto da te come una mia insistenza) per questi fratelli e sorelle che sono persi, nonostante la fede (perchè non giudichiamo la fede come mi hai ammonito), quindi indichiamo loro in maniera più chiara ciò che è gradito a Dio, siccome non lo hanno capito molto bene o non lo hanno trovato o proprio neanche cercato (Efesini 5 sempre versetti 10-11), perchè altrimenti con la sola fede non si può dire che siano in "comunione con Dio".
    Ora vorrei testimoniare alla luce della mia situazione, la realtà della solitudine: sono sola da sempre si può dire, e la solitudine è una croce pesantissima per me e la porto dalle elementari, quindi da piccola... e soffro tanto... sono una donna piacevole ma per i canoni "moderni" seria. E' difficile per una donna della mia età (e di aspetto fisico molto piacevole) vivere in questo mondo nonostante sia quello detto "civilizzato" ad iniziare dal lavoro: donne come me sole, scelgono di scendere a compromessi; donne come me accompagnate da un partner, allo stesso modo scendono a compromessi scegliendo di non sposarsi e vivere in concubinato proprio per non rimanere sole. (..continua)

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    1. Come detto ho 33 anni, senza compagnia e aggiungiamo anche che sono senza lavoro e senza (quasi) speranza. Non solo i divorziati si sentono soli, ci sono persone che davvero sono sole, che non hanno, o per volontà di Dio o per incapacità personali, un compagno o una compagna con cui vivere. Quindi ti dirò, non c'è nessuno quanto me che possa capire la solitudine e ciò che sto per dire non nasce dall'ignoranza in "materia": ora le donne si sposano intorno ai 30 anni e divorziano intorno ai 45 anni, cioè non riescono a portare la croce del matrimonio (il matrimonio è una croce) neanche per 15 anni... divorziate non riescono neanche a portare la croce della solitudine! Allora dico: se è brutta la vecchiaia da soli, resisti a portare la croce del matrimonio per altri 15 anni infondo quanto puoi campare su questa terra? (oppure aggiungiamo il tema che usano spesso oggigiorno, come causa di slegatura del legame coniugale, cioè l'attività sessuale della copia: per quanto puoi avere attività sessuale attiva se ti sposi intorno ai 35? altri e 20 anni?) Poi aggiungo, la maggior parte dei divorzi, al di là di contrasti economici, sono dovuti ad attività adulterine e spesso si lascia il coniuge per accompagnarsi con l'amante: in questo caso si fa di tutto per non portare la croce della solitudine e di alleggerire la croce del matrimonio cambiandola con una nuova magari più leggera (con l'amante si torna un pò a vivere da fidanzatini, si va in viaggio, si esce la sera, si trovano attività più ricreative...) e queste sono considerazioni pratiche, non c'è fede o teologia in questo che ho scritto.
      Se la prospettiva è quella di vivere la vita eterna, poco alle persone dovrebbe importare delle sofferenze della vita terrena: questo però è un commento diretto alla misura della fede e di cui nessuno giudicare (come mi hai detto prima).
      Non voglio entrare in temi teologici sui Sacramenti perchè non posso sostenere l'argomento, nonostante ritengo che offese ai sacramenti nei quali interviene lo Spirito Santo siano al quanto "bestemmie allo Spirito Santo" e annullarli o rinunciarci sarebbe uno "sputo" sulla "grazia" di Dio (ma questa è una opinione personale, non mi pare che sia scritto o dichiarato in qualche scritto della Chiesa o dei Padri della Chiesa). Pertanto il mio discorso finisce qui, perchè ho detto tutto quel che so e che penso, quindi non interverrò con un altro messaggio. Ti ringrazio per la possibilità che mi hai dato per esprimermi con il vostro blog.
      Cordiali saluti, e Dio ci benedica tutti e lo Spirito Santo guidi le menti, le parole e i gesti di tutti i Vescovi chiamati a esprimersi sulla pastorale della famiglia. Spero, però davvero, che indichino un percorso formativo/spirituale/educativo/riconciliante per questi divorziati risposati che vogliono comunicarsi con l'Eucaristia, approfittando di tale evidenzia nella loro vita di mancanza di comunione fraterna, per istruirli a vivere secondo il Vangelo. Pace e bene, G.

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  4. Cara G. grazie ancora per la tua testimonianza.

    Mi permetto solo di ribadire un punto: nessuno di noi si "salva" da solo. Cristo è morto per noi, per renderci partecipi della sua vita divina, per farci divini. E' in Lui che siamo salvati e non grazie alla nostra rigorosa e impeccabile fedeltà a tutti i comandamenti della Scrittura. La Legge, anche quella di Dio, non può essere concepita come un esame da superare per entrare in Paradiso, come fosse un test d'ingresso per l'università. Mi pare che la Legge sia piuttosto un "libretto d'istruzioni" per essere davvero uomini, davvero felici. Ecco, credo che la felicità sia un buon indice di santità.

    Tutti sbagliamo, tutti, per quanto seri, siamo incapaci di vivere appieno le esigenze del Vangelo, tutti possiamo sempre confidare nella misericordia di Dio. L'atteggiamento nostro nei confronti di chi sbaglia non può essere quindi quello del giudice, che scaglia la pietra, ma quello di fratelli che si aiutano e correggono a vicenda.

    Ti auguro un buon cammino, nella speranza che tu possa presto uscire dalla solitudine per condividere la carità di Cristo con chi saprà riconoscere la tua bellezza.

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