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20 ottobre 2015

Un clandestino al Sinodo II: il sacrificio dell'innocente


1 Della fedeltà obbiettiva e della fedeltà soggettiva

Se davvero vogliamo comprendere il problema del sinodo, non possiamo che tornare a sovvertire la rivoluzione copernicana dell'io, riponendo quest'ultimo al proprio posto. Cosa significa? Sradicarlo dalla posizione dispoticamente centrale assunta, e ricondurlo al suo stato di membro di un prezioso microsistema ecclesiale: la famiglia.

Anzitutto è opportuno ricordare questo: il sentimento amoroso, la consonanza dei cuori è l'esplosione iniziale che permette di fondersi in Cristo. Cristo, poi, rende partecipe il vincolo delle Sue Sacre Nozze con la Chiesa, facendone, di conseguenza, un principio di coesione così saldo da garantire la fedeltà obbiettiva dell'amore: da qui la sua indissolubilità, nonostante le infedeltà soggettive dei coniugi. Vale, infatti, il parallelismo che rende coerente la parte al proprio tutto: quale è indissolubile il legame tra il Salvatore e la Sua Sposa, tale sarà in proporzione quello del matrimonio.
 

Col sacramento accade un'inversione radicale della logica rispetto ad un semplice fidanzamento: Dio si appropria, arroga a Sè ed alla Sua Infinità ed Eternità l'amore preziosissimo tra un uomo ed una donna, rendendolo proprio, cosa Sua. Allora non è più l'amore ad appartenere agl'amanti, come accade nella dolcezza di un fidanzamento, ma gl'amanti ad appartenere all'amore, a quella relazione che assume una dimensione che io addirittura azzarderei a definire cosmica ed infinita. Non è più, così, qualcosa che nasce dai cuori degli sposi - come lo fu all'inizio - ma qualcosa da cui rinascono i cuori degli sposi.
La logica è quella della follia della Croce, della Fede, la quale c'insegna che il matrimonio è per i coniugi non qualcosa da porre, ma un abisso che va vissuto secondo la logica dell'abisso: esso grida d'essere sondato, esplorato, riscoperto e conosciuto. I sentimenti, il travolgimento affettivo sono l'olio più nutriente per la lampada dei cuori pensanti degli sposi, che illuminano le pareti di questa soave e salsa voragine. L'immersione conoscitiva di questa profondità giunge alla scoperta di altre persone che Dio da sempre preparava in essa: i figli.
Vedete, dunque: esiste una fedeltà obbiettiva del matrimonio che non potrà mai venire meno, un infinito insolubile nella sua intrinseca struttura amorosa. Questa fedeltà è quella di Dio, quella che Lui ha verso il rapporto dei due coniugi, dove egli dice: "È cosa molto buona"  (Cfr Gen 1, 31) ossia cosa che appartiene pienamente a Lui, che è il Bene in Sè, il Bene per Essenza. Questa appartenenza non viene meno, non dipende più da coloro che ne sono oggetto, ma da Colui che ne detiene il possesso e questi non muta opinione, né cambia la propria idea.
Vi è poi una fedeltà soggettiva che è la fedeltà che i coniugi debbono mantenere viva, la fedeltà della libertà umana, ossia la responsabilità dettata dall'ultimativa coerenza verso un dato di fatto, una realtà ineludibile, cioè la Grazia. Essa viene gratuitamente donata e ci dona tutto, rende a ciascuno la capacità stessa di essere liberi, ma l'aderenza ed il rispetto che dobbiamo alla nostra libertà è oggetto dell'uso che si fa di essa: questo dipende dall'uomo, in cui Dio senza dubbio alcuno Si è incarnato quel dì a Betlemme, ma a cui mai e poi mai Si è sostituito.
 


La prima fedeltà, però, è oltre la seconda, la supera per essere il punto di fuga verso cui convergono tutte le linee progettuali della vita sponsale, ciò cui essenzialmente si tende. Così non è l’affetto reciproco degli sposi a fare il matrimonio, ma il sacramento dal quale si può sempre partire a ricostruire l’affetto anche quando questo va perduto. Dio non è un ingenuo, sa benissimo che vi può essere rottura nella relazione degli sposi, nella loro fedeltà soggettiva, per questo offre la sua Grazia, per lavare ciò che è sordido, bagnare ciò che è arido e sanare ciò che sanguina, perché sa benissimo che senza la Sua Forza nulla è innocente nell’uomo (Cfr Sequenza di Pentecoste). Allora molti fraintendono: non è il divorzio ad essere la soluzione del matrimonio, ma il matrimonio ad essere soluzione del divorzio, perché anche qualora venisse meno la fedeltà degli sposi, quella di Dio non è suscettibile ai terremoti dell’esistenza. Questo non toglie che l’ideale consista nella consonanza delle due fedeltà, oggettiva e soggettiva; al contrario garantisce la perpetua occasione di quella perfezione nonostante la burrasca delle circostanze. Così i separati sono una realtà ammessa dalla Chiesa, persone che non riescono a mantenere salda una fedeltà soggettiva quotidiana, perché per mille complicazioni non riescono più ad amarsi. Magari uno tradisce l'altro, magari uno è ladro o altre cose terribili che possano accadere. Tuttavia si mantiene inviolabile la fedeltà oggettiva di Dio.
Ai coniugi non è neppure chiesta l'idealità di un amore sempre caldo e fiammante, è pure concessa una separazione che potrebbe durare anche tutta la vita. Una sola cosa, conciò, non è concessa, che essi si arroghino il diritto di dire proprio, e quindi solubile, un amore che non appartiene più a loro, né all'altro  sposo – altrimenti basterebbe un accordo tra parti per dissolverlo – ma a cui, piuttosto, loro appartengono e che, quindi, li trascende. 
 
2 Gli Agnelli Immolati del divorzio
 
Vorrei ora ricordare un fatto che non viene troppo tenuto in considerazione nel comune dibattito: esistono due specie di divorzi, perché due possono essere i ruoli. Uno attivo e l'altro passivo. Nel parlare di misericordia si considera sempre e solo un lato della medaglia, laddove il peccato è sempre più eclatante della giustizia. Vi può essere, infatti, chi nel matrimonio finge che la fedeltà del Signore non esista e chi, invece, la riscopre.
Qualora un uomo semplicemente subisse il divorzio, sarebbe vittima innocente, assai più simile al Cristo Crocifisso di quanto non lo fosse in altre condizioni. Lui può, anzi ha diritto ad accostarsi all'Eucaristia. Non vorrei attirarmi ora degl'improperi. Forse alcuni potrebbero irritarsi per quanto sto per dire; potrebbero sbuffare, magari raccomandarmi a quei luoghi che il medico o la malasorte raccomandano alla dissenteria. Qualcuno più morigerato nei modi, ma con ugual contenuto, potrebbe semplicemente trascinare il lampeggiante cursore in cerca disperata della "X" che solitamente s'alloggia al capo destro della pagina – alla tua destra, mio caro lettore... non alla mia. Ma domando pazienza per l’arditezza di quanto affermo – Del resto la Verità è fatta così, dalla culla al Calvario ha sempre avuto uno strano gusto per le posizioni scomode; si potrebbe dire quasi che invece sia un maggior dono ricevere una simile croce che non riceverla, il che poi non comporta affatto procurarsela, né che la croce in sé sia un bene, tutt'altro, quanto piuttosto occasione di maggiori privilegi e beni.
 
Quanto si riceve non se lo si è procurato, ma altri per noi si sono indaffarati a procurarcelo. Coloro che subiscono l'ingiustizia di un divorzio di cui non sono responsabili non sono diversi da quel Cefa cui cinsero la veste per portarlo dove non voleva. Ma quella fu la risposta di Cristo ad un uomo che sinceramente voleva seguirLo: "Un altro ti cingerà la veste e ti condurrà ove tu non vuoi" (Gv 21,18). Tale cingolo è quello della Passione di Gesù. Ma proprio questa è la Croce: una condizione non ideale che Dio permette per una maggiore idealità. Ecco la definizione che darei io, così come l'ho sperimentata e sofferta in numerose occasioni.
Mi rendo conto che ciò sia arduo, perché comporta l'accettazione gioiosa tutt'altro che immediata del dolore e del dolore affettivo, di un cuore che si sente tradito. È tremendo sorridere a chi ti tradisce e continua a tradirti senza rimorso, ma gioendone pure. Questa però è la grandezza di chi è figlio di Dio: essere come Dio, Amore Immutabile. Colui che subisce il divorzio, si ritrova, in vero, in una condizione che esige da lui una maggiore fatica. Ma v'è da giubilare delle proprie piaghe perché paradossalmente esse significano la promessa di una maggiore perfezione, che non differisce di contenuto col dire che Cristo domandi una maggiore intimità con l'uomo. Per questo avverto che il cristiano accorto sappia trarre il massimo privilegio dal massimo sfavore.
 
3 La Misericordia di Dio

Un troppo convenzionale modello di misericordia - come una sorta slot machine che, più che assolvere i peccati, pare assolvere dal compierli – ci ha portato a considerare tale preziosissima grazia come proprietà dei peccatori, sino quasi ad essere un loro esclusivo diritto. Certamente tutti siamo peccatori, quindi tutti abbiamo bisogno del perdono di Dio, ma il Perdono non è la prima Misericordia dell'Altissimo, quanto piuttosto la seconda. Non che in Dio vi sia diversità di sorta: Egli è l'unico di cui possa dirSi che è tutto ciò che ha e compie, sicché, se ama, è Amore, se vive, è Vita e così via. Certamente in Lui ogni forma che noi riscontriamo della Sua Essenza è coincidente e perfettamente identica a Lui. Ma per noi Dio non è un identico indistinto, ma un Identico Multiforme. Cosa significa? Nella Sua Assoluta Identità vi sono riccamente presenti tutte le forme che, da Lui provenienti, vediamo riverberarsi distinte nei Suoi effetti, ossia nella creazione: dal bene alla vita, all'amore, alla giustizia, alla fortezza e così via. In Lui perfettamente identiche, nelle cose sono, invece, distinte.

Così ravvisiamo verso l'uomo una prima misericordia che non riguarda i peccatori. Tutti siamo peccatori è vero, ma non tutti per le medesime cose. Al contrario vi sono, come detto sopra, vittime e carnefici. Il primo miserabile, cui è diretta la Divina Misericordia, è colui che subisce l'ingiustizia di altri, poi solo dopo possiamo parlare di perdono verso il peccatore, cioè la Misericordia verso chi compie l'ingiustizia. Allora la mia domanda è la seguente: nella pastorale che tanto promuove la comunione ai divorziati, dove sono coloro che hanno subito tale sofferenza rimanendo fedeli a quella fedeltà oggettiva di sopra?  Certamente i cuori malrammendati dei risposati vivono una dolorosa forma di esclusione dall'Eucaristia, di cui, però, loro e nessun altro alle strette della libertà sono responsabili. Questo comporta prudenza e grande delicatezza. Ma può la prudenza degl'uni divenire imprudenza nel trattare i cristalli infranti di chi ha subito un'ingiustizia e l'ha accolta eroicamente da Agnello Immolato? Giusto e peccatore sono forse uguali innanzi all'Eucaristia di Dio? Allora perché alcuni esortano a distribuirLa ugualmente agl'uni ed agl'altri? 

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