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14 ottobre 2015

Un clandestino al Sinodo 1: il divorzio come crisi dell'io


Inizia, con questo articolo, la pubblicazione di alcune riflessioni del nostro confratello Fr. Pietro Maria Tommaso Zauli O.P. circa alcuni temi di grande rilevanza affrontanti durante l'Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema della famiglia, che si svolge in queste settimane in Vaticano.

1 Il tragico grido
Oramai volge il meriggio della nota discussione sulla famiglia che da qualche tempo ha iniziato ad animare i sapienti scranni dei padri sinodali e così s'accresce l'attesa del crepuscolo per una problematica assai troppo rovente nella vita di una buona parte delle famiglie cristiane: il divorzio.

La gravità di questo fatto, in un'ottica cristiana, è data dalla stessa concezione di Chiesa. Chi, infatti, divide e promuove la divisione della famiglia, divide e promuove la divisione della Chiesa, ossia della familiarità stessa col Signore, della concretezza del Suo Mistico Corpo. Chi divide la Chiesa, divide Cristo.  Facciamo riecheggiare, allora, la provocazione lasciataci dall’apostolo Paolo: “È forse diviso il Cristo? ”(1 Cor 1,13)

Ma sulla gravità del fenomeno nessuno discute: vi è qualcosa di diabolico, dove il diavolo sin nel proprio nome significa la divisione che produce. Con l'immissione del divorzio nella società, non si è normata la divisione, non si è cercato di fronteggiarla, di curarla, ponendole dei limiti; al contrario si è voluto assorbirla, accettarla, cioè renderla parte del progetto architettonico della società: si è giunti a dire che la crepa è elemento costitutivo dell'equilibrio di quella volta e di quel muro portante dell'uomo che è la solidità sponsale. V’è il rischio che crolli tutto, non credete?


2 Premessa meditata: la rivoluzione copernicana dell'io
Come mi faceva notare un confratello, il problema non è neppure dato dall'esistenza del divorzio, che storicamente ha fatto parte delle società umane – e continua a farne parte – nelle diverse culture del nostro pianeta. Il problema è dovuto al fatto che il divorzio sia divenuto parte integrante di una società di innegabile matrice cristiana: il divorzio della famiglia è stato l'inizio di un divorzio da Cristo.

Questo è qualcosa di cui non possiamo ignorare la realtà; ancora più interessante poi è il fatto che nei paesi cristiani il divorzio risulta essere numericamente ben differente da quello dei paesi stranieri cioè extra-nati, nati fuori dal Battesimo: per gli islamici, per gli ebrei, per gli antichi vi è una vibrante nota di sdegno in quest'atto, tanto che il suo nome reale è ripudio. Si noti che il verbo ripudiare è tragicamente transitivo per cui, quando qualcuno ripudia, ripudia qualcuno: è un atto contro una persona, verso la quale si convoglia un certo disprezzo sociale. Perciò, qualora passasse in un paese 'veterotestamentario' una divorziata, certamente non si udrà dire: "Oh povera cara", quanto piuttosto sommessi bisbigli agl'angoli delle strade e agl'usci delle case. Perché? Perché è un atto estremo, sgradito e quindi non così frequente come nel mondo occidentale, dove non si divorzia qualcuno, ma da qualcuno - il che rende tutto un gusto diverso nei palati che assaporano questa parola: vi è la ricerca di indipendenza, la liberazione, la parità dei sessi e quindi non lo sdegno sociale,  ma una tacita e volteriana approvazione sociale (1).

Il divorzio, infatti, è il frutto di una rivoluzione copernicana del matrimonio: quale? Io ne identificherei una, cui si aggiunge una seconda rilevata saggiamente da fra Luca Refatti, i cui testi emergeranno anche più avanti (2):  la prima rivoluzione è la scoperta sempre più esasperata dell'istanza dell'io come propria natura. Alla domanda: Che cos'è l'uomo? Ora culturalmente si risponderebbe: Un io. Non è più l'uomo a dettare la natura dell'io, ma quella dell'io a determinare la natura dell'uomo.

La vitrea fragilità di tale categoria è la sua intrinseca vuotezza, poiché l'io non ha contenuto, ma è solo il soggetto di un dialogo in cui si oppone un tu. Che cos'è l'io? Un non-tu e questo non definisce un gran che, anzi lascia piuttosto liquida l'identità della persona.

L'uomo, però, ha bisogno di un contenuto, altrimenti non può autenticamente vivere: essendo nell'io vuoto, il contenuto agognato non nasce da un fatto, ma da una determinazione che pone il soggetto stesso alla propria indifferenziazione. Si noti: questo atteggiamento non è una realtà metafisica, ma un fraintendimento culturale della libertà dell'uomo di autodefinirsi coi suoi atti. Ecco la follia della cultura attuale: alcuni addirittura credono di poter costituire una para-identità - praticamente sempre dovuta ad un'alterata percezione affettiva di sé – a discapito dell'obbiettiva identità metafisica di uomo o donna con un certo corpo ed una certa anima.


Se all'estremità dei casi più critici questa rivoluzione copernicana dell'io sovverte l'identità della persona stessa - identità ed io non coincidono, l'una cosa riguarda l'essere, l'altra concerne la percezione psicologica di esso, ad esempio nel sogno il mio io è alterato, potrei credere di essere uno hobbit, cioè ho un'alterata percezione di ciò che sono realmente. Questo avviene anche in maniera più moderata, ma parimenti drammatica, nelle relazioni fondamentali: quelle della famiglia. Si è come formato un primato dell'individuo egoisticamente inteso sulla relazione sponsale, per cui non è più soddisfacendo ad essa che la persona scopre di realizzarsi, ma v'è l'illusione che sia soddisfacendo alle proprie esigenze e bisogni – soddisfacendo sé - che si realizzi come di conseguenza la relazione. Il dato empirico, però, svela quanto sia fallimentare questa visione: l'altro è amabile nella misura in cui io mi percepisco affettivamente soddisfatto, per cui il coniuge pare essere più una risorsa che un termine del mio amore. Ciò di cui si è dimentichi è la visione cristiana della realtà, la quale trova piena realizzazione nella logica del dono e della gratitudine: tutto ci è stato dato. Di conseguenza il desiderio è una preziosa condizione – non avrebbe senso fare doni indesiderabili – che mai e poi mai può divenire tirannica pretesa.

3 L'io della donna
In particolare la rivoluzione copernicana dell'io nella famiglia è dovuta anche dall'esasperazione della scoperta concreta - e non solo teoretica - dell'importanza sociale della donna. Su questo punto mi ha fatto molto riflettere fra Luca in un fraterno colloquio a ricreazione.
Per la tradizione cristiana la donna ha sempre ricoperto un ruolo di spicco, basti pensare a Maria, alle laudi Medioevali, ai grandi esempi di santità, da Giovanna d'Arco a Caterina da Siena. Ma per la tradizione umana che accoglie la Rivelazione si è sempre verificata una certa lentezza nel comprendere la verità. Tale umanità, nel senso più deteriore del termine,  subisce e continua positivamente a subire la crescita e l'educazione verso la piena maturità di Cristo, ma possiede un andamento autonomo, dato da molti e svariati influssi, rispetto allo sviluppo teologico e spirituale.
Ora, la scoperta della donna è stata fondamentale, perché già Dio ne aveva rivelato la necessità sin dai primi capitoli della Genesi, dove l'unità uomo-donna si palesa essere la piena immagine di Dio, tanto che Adamo senza Eva si sente solo, immagine sola di un Dio che sappiamo essere il solo Dio, ma tutt'altro che solo, perché trinitario. Tale preziosa acquisizione, però, è stata esasperata da chi ha iniziato a non riconoscerla più come vera uguaglianza, ma come occasione di rivalsa verso fantomatici oppressori maschili.

Nascono, così, i diritti per le donne che sono, in vero, una concezione socialmente mostruosa: l'umanità è tanto maschile come femminile, sicché se si parla di diritti dell'uomo, non ci si riferisce alla posizione giuridica del maschio, ma all'inalienabile valore della persona umana, che può essere maschio o femmina. Affermare questa scissione filosofica dei diritti significa dividere l'uomo. Da qui nasce la visione, ahimè padrona di molte sfortunate menti, che la donna sia tale perché si opponga all'uomo e viceversa e non perché si fonda con esso e ne sia l'armonico complementare. Si è tentato di portare il valore della donna, dall'essere il più fulgido dono per l'uomo, ad essere l'affermazione di un muro politico che la divide dall'uomo - e così viceversa.

Si noti che la complementarietà è relazione, mentre il proprio valore concerne l'io, siamo quindi sul duro solco tracciato da una rivoluzione copernicana dell'io, egoisticamente inteso, a discapito della relazione.

4 La domanda
È in questa cacofonica esplosione di divergenze che si pone il problema della comunione sacramentale alle famiglie che non hanno più una reale comunione fra i propri membri. La domanda dinanzi a tutto ciò è una sola: per quanti si fanno divisori della Chiesa (e questo non vale evidentemente solo per i divorziati evidentemente, ma per tutti i peccati, i quali, se mortali, mortalmente ledono l'unità) può esservi comunione? Se l'Eucaristia è culmine e fonte della vita ecclesiale, come insegna la Sacrosanctum Concilium, Essa non è solo un punto di arrivo di una nobile congregazione di cristiani, qualcosa che fornisce la vitalità necessaria ed intrinseca per edificare il Regno di Dio, ma è anzitutto un punto d'inizio.
La comunione può sorgere solamente dalla comunione, derivando il bene solamente dal bene. Qual è questa unità primordiale da cui parte una famiglia? I sentimenti? Gli affetti? Questi sono tutti fattori importanti, da tener di gran conto, ma non costituiscono un legame obbiettivo. Il sentimento, infatti, per quanto ricambiato è soggettivo, cioè relativo a chi lo prova e perciò troppo volubile per essere il punto di partenza dell'unità ecclesiale che nasce dalla sponsalità. Questa è significata e realizzata dal sacramento: è il vincolo con cui Dio lega a doppio nodo due persone tra loro e la loro unità a Sé che costituisce il punto di partenza eucaristico per accedere all'Eucaristia, alla Comunione Sacramentale. Allora il problema non è dare o non dare la comunione ai divorziati risposati, ma come recuperare la fedeltà alle premesse necessarie per l'Eucaristia.



(1): Vorrei specificare che qui non si confondono le istituzioni giuridiche del ripudio e del divorzio: il primo è un atto che compiono i coniugi, il secondo necessita di un intervento esterno che compie lo stato. La riflessione che proponevo non è, quindi, di natura giuridica, quanto piuttosto di natura semantica.
(2): Per un articolo a mio parere meritevole quanto meno di essere discusso riguardo la nostra problematica rimando al blog di studentato http://vitaefratrum.blogspot.it/2015/01/la-comunione-ai-risposati.html#more

2 commenti:


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